DAP, DAD O DDI – La scuola del Covid
Qualche chiarimento per i non addetti ai lavori.
DAP: didattica in presenza
DAD: didattica a distanza. È lo smart working versione scuola: a primavera a distanza per tutti, con il nuovo anno a distanza soltanto per i docenti. D’altro canto “smart” non significa “da casa”, corrisponde grossomodo al nostro “agile”ed è stato definito dalla legge n. 81 del 2017.
DDI: didattica digitale integrata, da attivarsi qualora si verifichino determinate condizioni.
Le debolezze della scuola “smart”:
la didattica a distanza aumenta le disparità sociali (disponibilità di attrezzature e connessione, adeguati spazi di studio, supporto familiare) e le disparità geografiche (il divario tecnologico tra centro e periferia); l’assenza snatura la relazione educativa e indebolisce l’apprendimento tra pari, mettendo a rischio il benessere psicologico soprattutto degli adolescenti.
D’altronde delle scelte bisogna pur farle, se non sono state fatte da subito e per tutti all’inizio dell’anno scolastico.
Sappiamo bene che l’emergenza sanitaria ha messo a nudo l’arretratezza del nostro paese.
Come spesso accade, tuttavia, ha fatto anche riemergere la consueta resilienza, adattabilità, capacità di recupero e flessibilità che ci contraddistinguono in quelle situazioni altrimenti irrimediabili.
Ma l’arretratezza infrastrutturale, culturale, tecnologica e progettuale c’è, e resta tale.
Possibile rimediare alle carenze infrastrutturali nei caldi mesi estivi del 2020?
Certamente no, né per i trasporti e la rete stradale, né per il sovraffollamento scolastico, scelleratamente peggiorato dalla riforma Tremonti – Gelmini.
Nulla è rimediabile in breve tempo, ma occorre pur iniziare a pianificarlo da subito questo futuro, possibilmente partendo da una diversa visione di scuola, da un serio e costruttivo dialogo tra le istituzioni e tutti i soggetti coinvolti, lavoratori in primis. Tamponare e, contemporaneamente, progettare soluzioni “strutturali” che partano dagli spazi fisici e dal concetto stesso di scuola, che integrino tradizione e innovazione, didattica digitale inclusa.
Partiamo dall’insistenza del governo per la scuola in presenza per tutti a inizio nuovo anno scolastico.
Ci siamo chiesti perché non programmare da subito una riduzione dell’accesso al trasporto pubblico mandando in smart tutta la PA (straordinaria occasione per “ammodernarla” lavorando per obiettivi e risultati) e in DAD tutta la scuola secondaria di II grado, con poche intelligenti eccezioni.
Il secondo grado in DAD avrebbe, inoltre, liberato spazi per gli altri ordini di scuola.
Perché aspettare che la situazione degenerasse, prevedendo chiusure a singhiozzo e a macchia di leopardo legate all’emergenza locale da gestire caso per caso ?
L’ingestibilità del contagio, in un contesto come quello scolastico, si è rivelata immediatamente in tutta la sua gravità.
Il metro di distanza e la disposizione che gli studenti indossino le mascherine soltanto in un contesto “dinamico” (in piedi, a ricreazione, nei corridoi e nei bagni) si sono rivelati da subito una trovata surreale, quando non grottesca.
Sfido tutti i non addetti ai lavori ad entrare nelle nostre classi durante le lezioni e vedere cos’è una classe viva, come differisce da tutti gli altri contesti lavorativi, e confrontarla con l’aula vuota e gli spazi dei banchi segnati a pavimento.
Si arriva fino a 28- 30 alunni, spesso “stipati” pur nel rispetto del metro di distanza, seduti nei banchi con zaini voluminosi e alle volte le larghe cartelle di arte e tecnologia poggiate a terra tra i banchi; uno, due o anche tre alunni disabili con i rispettivi docenti di sostegno; alunni con disturbi dell’apprendimento e bisogni educativi speciali.
Tutti cinque o sei ore seduti con misere pause di 15 minuti per la “ricreazione”, per mangiare, bere e “ricrearsi”, sempre seduti. Causa Covid ? Non del tutto: la scuola del primo ciclo, restava in aula tutta la giornata scolastica anche prima del Covid.
Ci si muove un attimo, ci si volta per chiacchierare con il compagno seduto dietro di sé, per estrarre o rimettere qualcosa nello zaino, ed ecco che il mistico metro scompare, i banchi irrimediabilmente “escono” dal perimetro faticosamente segnato a pavimento, il metro svanisce.
Non esiste “contesto statico” a scuola.
Docenti con mascherine, docenti di sostegno che non possono mantenere la distanza, muniti anche di visiere, banchi attaccati alle finestre per cui la necessaria areazione costante si interromperà ai primi freddi.
Necessaria flessibilità e adattabilità. Se ci sono stati contesti lavorativi che hanno mostrato una così immediata capacità di reazione e adattabilità alle circostanze pur in assenza di formazione, attrezzature, norme contrattuali, vorremmo conoscerli.
Dopo la fatica della scorsa primavera, la caccia agli spazi, alla connessione, al “parco macchine”, alle necessità dell’utenza svantaggiata, oggi a scuola si profila il seguente scenario.
Prima dell’inizio dell’anno scolastico tutte le scuole hanno dovuto progettare un piano per la didattica digitale integrata da attivare non soltanto in caso di sospensione dell’attività didattica decretata a livello nazionale, ma anche ai fini del contenimento del contagio a livello locale.
Prime incertezze: a livello “locale” significa a livello di singola regione e in tal caso la sospensione la decreta il governatore, o a livello comunale per cui provvede il sindaco con le sue ordinanze.
In nessun documento risulta invece la possibilità che l’istituzione scolastica possa disporre una DDI in autonomia e per ovviare a criticità altrimenti irrisolvibili. Ma non è neanche esplicitamente vietato.
In Italia, tutti rivendicano “autonomie”, fino al momento in cui c’è da prendere decisioni difficili.
Basta pensare al comportamento dei vari “governatori” a un giorno dal nuovo DPCM.
In sostanza, ad oggi, nonostante il contratto integrativo sulla didattica digitale di qualche giorno fa, non si comprende se la singola scuola possa decidere di attivare la DDI in assenza di disposizioni di chiusura delle autorità locali.
Di conseguenza, lo scenario che si è verificato in questo primo mese di scuola è il seguente:
DDI al bisogno, se l’intera scuola chiude per ordinanza del sindaco, qualora i casi positivi coinvolgano troppe classi e sia difficile tracciare tutti gli alunni e il personale coinvolto, soltanto alcune classi sono in quarantena, soltanto alcuni alunni e/o docenti in quarantena.
Provo a chiarire cosa accade in caso di chiusura parziale e tralascio, volutamente, la difficoltà di ricostruire la catena dei contagi a scuola, tra sostituzioni, scambi occasionali tra i colleghi o tra gruppi classe. I docenti si recano a scuola, nelle aule lasciate vuote dalle classi in quarantena e fanno lezione a distanza; poi procedono con le classi in presenza e, qualora in queste classi ci siano alunni in quarantena, ci si collega e si cerca di farli partecipare alla lezione attraverso lo schermo di un portatile, salvo i docenti di sostegno che, se in quarantena, non possono nella maggior parte dei casi seguire gli alunni gravi a distanza.
Tutto fila relativamente liscio se la situazione tecnologica è ideale: connessione rapida, pc con webcam e altoparlanti.
Alle difficoltà già sperimentate in primavera, si aggiungono dunque quelle della DAD “a singhiozzo” e mista.
A questo punto è il caso di porsi una serie di domande.
La scuola in presenza, cosi come l’abbiamo voluta oggi, garantisce a tutti il successo formativo?
La distanza è sempre un fattore negativo? Cosa significa “distanza”? Siamo sicuri che tutti gli alunni siano più seguiti e coinvolti in presenza? La “personalizzazione” che risuona in tutti i documenti scolastici, parallelamente al rispetto dei tempi di apprendimento, è davvero realizzabile in presenza? Esistono situazioni (individuali e collettive) per le quali vale la pena di sperimentare ancora e sistematicamente la “distanza”?
Infine, ci sono più garanzie dal punto di vista educativo e formativo con una didattica a singhiozzo, disposta solo in situazioni di emergenza locali e occasionali, o con una DDI programmata a monte ed erogata per tutto l’anno scolastico? D’altronde lo dice il termine stesso: “integrata”.
I ragazzi, almeno fino alla fine del primo ciclo, hanno acquisito quell’autonomia e flessibilità che consenta loro di passare disinvoltamente, repentinamente e ripetutamente da una modalità all’altra? Per le famiglie questo stop & go non è, invece, più problematico da gestire?
La didattica in presenza è irrinunciabile? Certamente. Senza la presenza non si può instaurare la relazione educativa; la formazione passa attraverso lo scambio vivo, immediato, il confronto con i compagni, l’acquisizione collettiva e comparativa di “comportamenti” e atteggiamenti.
Tutto sacrosanto.
Proviamo però anche a chiarire l’ambiguità che ha caratterizzato la discussione tra i pro e i contro della didattica a distanza: da un lato se ne evidenziano tutti i limiti derivanti, appunto, dalla distanza “fisica”, dall’altra se ne evidenziano le potenzialità “innovative” legate al suo essere “digitale”, come se il canale fosse innovativo di per sé.
Intanto una didattica “innovativa” in presenza presuppone un ambiente “fisico” quasi del tutto assente nelle scuole italiane – almeno nel primo ciclo: aule spaziose e attrezzate dove poter variare la disposizione di banchi e sedie; uno spazio diversamente inteso non assimilabile all’aula “piena” di banchi per una classe altrettanto diversamente intesa, una classe “aperta”, uno spazio che non coincida necessariamente con la singola classe. Basta fare un giro virtuale nelle aule di altri paesi europei e non solo, per farsi un’idea di come possa essere immaginato e realizzato lo spazio scuola e lo spazio classe.
Con i nostri spazi la “lezione frontale” è inevitabile. L’insegnante può provare a movimentarla e capovolgerla con strategie, approcci e quant’altro, ma frontale resta. Sia ben chiaro, non confondiamo la lezione frontale come modalità didattica e l’acquisizione di conoscenze e contenuti, fondamentali ben oltre che le ormai abusate “competenze”. Non si sviluppano competenze nel vuoto di conoscenze e contenuti.
L’ambiente di apprendimento, di cui si fa un gran parlare, certamente non si riferisce soltanto allo spazio fisico ma è inevitabilmente condizionato da esso.
Infine le “quote orarie” previste dal piano nazionale della DDI per garantire un numero minimo di lezioni in diretta. La video lezione, o live, o lezione sincrona, non è che la trasposizione online della lezione frontale.
Più la DDI si intende come una riproduzione della didattica in presenza, più essa paradossalmente se ne discosta, più l’utenza, stranamente, si sente tranquillizzata.
L’errore è nell’equiparare l’utenza agli addetti ai lavori, la consueta confusione tra ruoli e competenze. Assecondare le preoccupazioni e le richieste dell’utenza, significa abdicare al proprio ruolo.
L’ultimo documento prodotto dal Ministero, il Contratto Integrativo sulla DAD, si guarda bene da chiarire alcunché: scompaiono le “quote orarie” e resta tanta ambiguità.
Sapranno le scuole approfittare di questi spazi “vuoti” per decidere “autonomamente” e altrettanto autonomamente progettare l’organizzazione migliore per i propri studenti mettendo in pratica quell’autonomia di cui dispongono per legge?
Sara Angelone
FLP Scuola Molise